Chiesa - L'anno paolino Sulle tracce di San Paolo Josè Miguel Garcìa
Da fariseo che odiava i cristiani in nome della Legge ad “Apostolo delle genti”. Mentre si apre l’anno giubilare che il Papa ha voluto dedicare al più importante missionario della storia, noi ne ripercorriamo vita e viaggi. Per capire che cosa ha mosso il suo cuore
Un anno fa, durante la festa dei santi Pietro e Paolo nella basilica di San Paolo fuori le Mura, Benedetto XVI annunciò l’indizione di un Anno Paolino, da celebrare a partire dal 28 giugno 2008 fino al 29 giugno 2009 in occasione del bimillenario della nascita dell’Apostolo delle genti, che ha contribuito in modo straordinario all’annuncio e alla diffusione del cristianesimo agli inizi della sua storia. Papa Ratzinger aveva voluto sottolineare la valenza ecumenica della celebrazione, ricordando che Paolo «si è totalmente prodigato per l’unità e la concordia di tutti i cristiani», ma aveva anche affermato che la Chiesa ha bisogno, oggi come duemila anni fa, di «apostoli pronti a sacrificare se stessi… di testimoni e di martiri come san Paolo». I recenti scavi promossi dal cardinale Andrea Cordero Lanza di Montezemolo hanno permesso di rendere visibile a tutti i pellegrini nella basilica un lato del grande sarcofago di marmo, conservato da venti secoli sotto l’altare papale di San Paolo fuori le Mura, che raccoglie le spoglie dell’Apostolo. «Cooptato» nel collegio degli apostoli da Gesù stesso, che lo folgorò sulla via di Damasco, dopo essere stato un persecutore della prima comunità cristiana, Paolo è diventato il più grande missionario di tutti i tempi, colui che ha contribuito a portare l’annuncio evangelico al mondo pagano, realizzando la prima fondamentale inculturazione del Vangelo nella storia. Negli ultimi decenni, poi, si sono moltiplicati i libri tendenti a presentare Paolo come il vero «inventore» del cristianesimo: avrebbe trasformato Gesù da «Messia politico fallito», in Messia esclusivamente spirituale e salvatore universale. Una tendenza di moda, che si sposa bene con un’idea di cristianesimo ridotto a pura sofia spirituale avulsa dalla gratuita storicità dell’incarnazione, morte e risurrezione di Gesù. L’Anno Paolino che si apre a fine mese è un’occasione anche per fare giustizia di questa posizione. Andrea Tornielli
L’apostolo Paolo è, indubbiamente, uno dei personaggi più noti del cristianesimo primitivo, grazie ai racconti degli Atti degli Apostoli e alle lettere che egli stesso scrisse alle comunità che aveva fondato durante i suoi viaggi missionari. In esse, l’Apostolo offre alcune notizie biografiche molto interessanti (Gal 1,13-17; 1Cor 15,8-9; 2Cor 11,22; Rm 11,1; Fil 3,4-6). Grazie a queste brevi indicazioni sappiamo che Paolo era membro della tribù di Beniamino, una delle tribù rimaste fedeli al patto con Yahvè; che fu circonciso a otto giorni, secondo la Legge di Mosè; che i suoi genitori erano originari della Palestina, e probabilmente parlavano aramaico; infine, che apparteneva al gruppo dei farisei. La sua appartenenza al fariseismo non implicava soltanto una stretta osservanza della Legge e il suo studio costante, ma anche la separazione dagli altri giudei, per far parte della “vera comunità” di Israele. Apparteneva, quindi, a un’élite religiosa. Per accedervi, il candidato doveva trascorrere un periodo di prova di oltre un anno, in cui imparava a compiere tutte le prescrizioni rituali esclusive della comunità e stava lontano da qualsiasi rapporto contaminante, dato che i farisei erano laici che si preoccupavano della santità rituale della vita quotidiana. Secondo loro, vivere in un paese pagano significava perdere questa santità o purezza: si poteva essere veri giudei solamente in
Israele. Effettivamente, nelle fonti storiche non vi sono tracce o riferimenti alla presenza di scuole esplicitamente farisaiche fuori della Palestina nel periodo del secondo Tempio. Pertanto, se Paolo fu educato secondo i principi farisaici, questa educazione ebbe luogo in Palestina; concretamente, nella città di Gerusalemme. Che Paolo, nonostante fosse nato a Tarso, in Cilicia, fosse legato alla Palestina e a Gerusalemme, non è solo deducibile dalla sua appartenenza al fariseismo; lo afferma anche Luca, nel discorso pronunciato dallo stesso Apostolo dalla scalinata della Torre Antonia al popolo riunito sulla spianata del Tempio:«Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi» (At 22,3; cfr. 23,6). Dopo uno studio profondo di questa affermazione di Luca, Willem Cornelis van Unnik arriva a concludere che Paolo, sebbene fosse nato a Tarso, andò a vivere nella città santa «prima ancora di poter guardare fuori della porta e poter camminare per strada», ossia quando era ancora un infante. Riguardo alla sua educazione, la ricevette interamente a Gerusalemme, e arrivò a essere un allievo del fariseo Gamaliele. Benché alcuni autori moderni si ostinino a identificare le radici del cristianesimo di Paolo nel mondo greco e lo considerino un giudeo ellenistico della diaspora, senza alcuna «contaminazione» della tradizione ebraica palestinese, la descrizione che l’Apostolo fa di se stesso come membro della setta farisea e le notizie fornite da Luca ci obbligano a collocare la sua crescita e la sua formazione in Palestina. Nella stessa direzione ci orienta il nome dell’Apostolo prima della conversione al cristianesimo: Saulo. I riferimenti nelle fonti scritte e nei reperti archeologici indicano che non era un nome comune nella diaspora, ma consueto in Palestina. Per il resto, l’esistenza di scuole giudaiche nella diaspora non è certa; le poche informazioni che abbiamo su tale attività scolastica fuori dal territorio di Israele si concentrano unicamente nella città di Alessandria.
Persecutore della Chiesa Negli Atti degli Apostoli, Luca presenta per la prima volta Paolo in occasione del martirio di Stefano. I primi dati che sottolinea sono la sua implicazione nella morte di Stefano come delegato delle autorità ebraiche per controllare lo svolgimento legale dell’esecuzione (7,58) e la sua decisa approvazione della condanna di Stefano (8,1). Poco dopo, lo descrive implicato ufficialmente nel compiere una sistematica persecuzione dei cristiani (8,3; 9,1-2). Lo stesso Luca ci informa in seguito che tale persecuzione non aveva come obiettivo soltanto la correzione e il castigo degli errori di questa nuova fede, ma anche la pena di morte (At 22,4; 26,10). Paolo, nelle lettere, riconosce che desiderava distruggere totalmente le comunità cristiane (Gal 1,13; cfr. anche Gal 1,23; Fil 3,6; 1Cor 15,9). Il suo comportamento, secondo le sue stesse parole, causò gravi danni alla Chiesa nascente. All’origine di questa opposizione frontale, che giunse fino alla violenza fisica, si trovano il suo zelo verso la Legge e la sua formazione farisaica, ma soprattutto lo scandalo della croce. Gesù fu condannato a morire di questo spaventoso supplizio, come conseguenza di un’accusa del tribunale supremo giudeo a Pilato, prefetto della Giudea. Ma prima di comparire di fronte al tribunale romano, il sinedrio aveva giudicato Gesù meritevole di morte per un crimine contro la legge di Mosè: blasfemia. Questo peccato grave, che la legge divina decretava fosse punito con la morte, viene attribuito a Gesù nella tradizione rabbinica. Basti, come esempio, questa citazione dal Talmud di Babilonia: «Alla vigilia della Pasqua si appese Gesù il nazareno. Un banditore per quaranta giorni andò gridando nei suoi confronti: “Egli esce per essere lapidato, perché ha praticato la magia e ha sobillato e deviato Israele. Chiunque conosca
qualcosa a sua discolpa, venga e l’arrechi per lui”. Ma non trovarono per lui alcuna discolpa, e lo appesero alla vigilia della Pasqua. Ulla disse: “Credi tu che egli sia stato uno, per il quale ci si sarebbe potuti attendere una discolpa? Egli fu invece un mesît [uno che conduce all’idolatria] e il Misericordioso ha detto: Tu non devi avere misericordia e coprire la sua colpa» (bSanh 43a). Paolo, in quanto fariseo zelante, considerava Gesù un empio, un trasgressore della Legge, dato che si era proclamato uguale a Dio, attribuendosi il perdono dei peccati o dichiarandosi il vero interprete della Legge mosaica; Gesù era giunto perfino ad affermare che il destino eterno degli uomini dipendeva dalla posizione che avrebbero preso nei suoi confronti, dalla loro accettazione o rifiuto. E i suoi seguaci, che ammettevano questa pretesa sacrilega, erano colpevoli dello stesso crimine. Dovevano essere sterminati tutti, se non si pentivano. «Il Gesù che presentano i Vangeli - nota Mariano Herranz -, l’unico della realtà storica, non sta davanti a Dio con gli uomini, unicamente e semplicemente come uno di essi, ma sta tra Dio e gli uomini. Davanti a questo Gesù, gli zelanti protettori dell’ortodossia giudea, se non accoglievano con fede le sue parole e la sua persona, dovevano reagire come il fariseo Saulo davanti a quelli che avevano creduto in lui». Ma la sua vita di fariseo zelante, di cui faceva parte la sua fanatica persecuzione della Chiesa, cambiò radicalmente grazie alla decisione di Dio, che sulla strada di Damasco gli manifesta il mistero di suo Figlio e lo chiama a diventare missionario tra i gentili. Colui che Paolo considerava maledetto da Dio, ora lo vede innalzato alla destra di Dio, nella gloria divina. Gesù dunque si manifesta come il vero figlio di Dio e redentore di tutti gli uomini. E colui che Paolo aveva odiato a causa dello zelo religioso diventa il centro affettivo di tutta la sua esistenza.
Paolo missionario I tre viaggi missionari che Paolo compì dal 45 al 57 (vedi p. 117) sono ben noti. Durante il primo, accompagnato da Barnaba, si imbarca nel porto di Seleucia per recarsi a Cipro; qui percorre tutta l’isola, predicando nelle sinagoghe dei giudei. Si imbarca di nuovo, diretto in Anatolia, l’attuale Turchia; visita le principali città delle regioni della Panfilia, della Pisidia e della Licaonia. Torna sui suoi passi e giunge al porto di Atalia, da dove si dirige ad Antiochia in Siria, il punto di partenza. Secondo i calcoli degli studiosi, Paolo in questo viaggio percorse più di mille chilometri, probabilmente per la maggior parte a piedi. Anche il suo secondo viaggio missionario inizia da Antiochia di Siria. Paolo decide di andare via terra verso nord, per raggiungere la strada imperiale e visitare le comunità fondate durante il primo viaggio. Dopo un certo tempo, giunge sulle coste occidentali della Turchia, al porto di Troade. Decide di andare a Filippi, città della provincia macedone. Percorre la strada che porta verso la Grecia del sud e arriva ad Atene e Corinto, dove rimane circa un anno e mezzo. Torna in Palestina per mare, facendo scalo a Efeso; sbarca a Cesarea, da dove torna ad Antiochia a piedi, concludendo il secondo viaggio missionario. Ha percorso circa millequattrocento chilometri. Il terzo viaggio segue lo stesso itinerario del secondo: raggiunge via terra la strada imperiale che attraversava l’Anatolia e passa per il territorio della Frigia e della Galazia, visitando le comunità fondate durante i due viaggi precedenti. Giunge poi a Efeso, capitale della provincia romana dell’Asia, e vi si stabilisce per più di due anni. Poi, costeggiando il mar Egeo, si reca in Macedonia e in Acaia, dove si ferma tre mesi. Durante questo periodo, a causa della colletta a favore dei bisognosi di Gerusalemme e della Giudea, visita nuovamente Filippi e Corinto. Informato delle macchinazioni che i giudei stanno tramando contro di lui, decide di cambiare programma e non torna immediatamente in Siria. Da Filippi si imbarca per la Troade, dove si trattiene una
settimana. Ritorna per mare a Cesarea. Da lì sale a Gerusalemme, dove la comunità cristiana lo riceve festosamente. Il percorso di questo terzo viaggio supera i millesettecento chilometri. È facile immaginare che questi viaggi furono realizzati in condizioni dure e pericolose. Così dice lo stesso Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «…tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (11,25-28). Sempre grazie alla sua testimonianza sappiamo che per predicare sceglieva le sinagoghe delle principali città. Scegliere importanti centri politici e commerciali facilitava la diffusione del cristianesimo nelle regioni circostanti, che avevano molte ragioni per rimanere in stretto contatto con quelle città. Inoltre, le comunità cristiane che aveva fondato dimostrano fin dall’inizio di essere veramente missionarie. Basti ricordare che le chiese di Colossi, Laodicea e Hierapoli furono fondate, mentre l’Apostolo era ancora in vita, da alcuni membri delle comunità paoline. «Credere nel Vangelo - sottolinea Mariano Herranz - significa diffondere il Vangelo. Sembra che l’Apostolo desse per scontato, come un fatto assolutamente naturale, che in ciascun convertito alla fede in Gesù Cristo nascesse contestualmente, come era successo a lui sulla via di Damasco, il credente e l’apostolo». Sicuramente una delle caratteristiche che più suscitarono l’attrazione esercitata dal cristianesimo sulle persone fu la fraternità: uomini di livello sociale, razza e cultura diversi si amavano e si aiutavano a vicenda. Tra i cristiani esisteva un senso della carità effettivo, tanto che fin dagli inizi si istituì un aiuto sistematico agli emarginati sociali o ai più bisognosi, come gli orfani e le vedove, o anche ai pellegrini e ai viaggiatori. Ne offre un esempio l’aiuto promosso dalle comunità ecclesiali a favore dei cristiani della Giudea (Gal 2,10; 1Cor 16,1-2; 2Cor 8-9). Questa mutua carità dimostra anche l’unità vissuta dai cristiani, generata dal Battesimo. In Gal 3,27-28, Paolo parla di questa unità utilizzando le categorie che ai suoi tempi si usavano per distinguere gli uomini: «Poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». A una società che promuoveva sistematicamente la divisione, Paolo annuncia la grande novità introdotta da Cristo nella vita degli uomini: fa di tutti gli uomini un unico essere. Così mette fine all’estraneità e alla separazione che i giudei sentivano rispetto ai pagani, fa sparire il disprezzo dell’uomo libero romano rispetto allo schiavo e annulla l’emarginazione che l’uomo imponeva alla donna. Questa esperienza di un’umanità nuova, determinata dalla carità e dalla compassione, che corrispondeva ai desideri più profondi del cuore, esercitava un grande fascino sulle persone più semplici.
L’ultimo viaggio Paolo viene portato prigionero a Roma; questo viaggio della prigionia è narrato negli ultimi due capitoli degli Atti (27-28). Luca lo racconta vividamente e nei dettagli, dato che fu tra quelli che accompagnarono l’Apostolo. Salparono negli ultimi mesi del 60. La loro imbarcazione navigò da Cesarea fino al porto di Sidone, dove fecero scalo; salpati di là costeggiarono Cipro, la Cilicia e la Panfilia, poi giunsero a Mira di Licia, dove cambiarono nave. Navigarono lentamente dalle coste di Cnido fino all’isola di Creta, dove attraccarono in una località chiamata Buoni Porti. L’inverno era vicino e la
navigazione era ormai pericolosa, per cui decisero di cercare un porto adatto dove trascorrere l’inverno; scelsero un altro porto di Creta, chiamato Fenice. Tuttavia, una violenta tempesta li trascinò al largo. Per quattordici giorni andarono alla deriva, poi la tempesta li portò fino all’isola di Malta. Accolti con grande umanità dagli abitanti dell’isola, vi rimasero tre mesi. All’inizio della primavera dell’anno 61, salparono da Alessandria e approdarono a Siracusa, dove restarono tre giorni. Dopo essere passati per Reggio, arrivarono a Pozzuoli, dove vennero accolti da alcuni fratelli che li pregarono di trattenersi con loro una settimana. Da lì partirono alla volta di Roma, attraversando il Foro Appio e le Tre Taverne. Nella capitale dell’Impero a Paolo fu concesso di prendere in affitto una casa, dove visse per due anni sotto custodia militare, ma libero di accogliere tutti quelli che andavano a trovarlo e di annunciare la fede nel Signore Gesù Cristo. Molto probabilmente nel 63 ottenne di nuovo la libertà e poté realizzare altri viaggi. Secondo un’antica tradizione, ebbe l’occasione di esaudire il suo grande desiderio di recarsi in Spagna (cfr. Rm 15,28).
Fuori le mura Dopo un secondo periodo di detenzione, Paolo fu decapitato sulla via Laurentina, in un luogo chiamato Aquas Salvias, nel 67. La tomba di Paolo si trova nella basilica di San Paolo fuori le Mura. All’inizio i cristiani costruirono un piccolo monumento sepolcrale, a cui si riferisce anche Gaio. Analogamente a quanto fece con il sepolcro di Pietro, Costantino ordinò di edificare una basilica, un po’ più piccola, agli inizi del IV secolo. Ma alla fine dello stesso secolo gli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio la ampliarono e modificarono la sua posizione originale. In occasione del restauro della basilica, effettuato in seguito a un incendio (26 luglio 1823), si scoprì che sotto la basilica c’era un cimitero, formatosi presumibilmente tra il I e il IV secolo. Pertanto, la venerazione di quel luogo esisteva già poco dopo gli avvenimenti che il monumento commemorava.
Chiesa - Libri da leggere Schlier e la «nuova creatura» Pigi Colognesi
C’è un classico da riprendere per capire la teologia paolina Il lunedì e il mercoledì, a Vespero, san Paolo dà contenuto alla nostra preghiera, con i due inni tratti rispettivamente dalla Lettera ai Colossesi e da quella agli Efesini. Il nostro pericolo è quello dell’abitudine, di dare per scontato ciò che leggiamo. Invece, quelle due pagine descrivono con ineguagliata potenza cosa avviene quando una persona incontra l’annuncio cristiano e vi si affida: nasce la «nuova creatura», il vero protagonista della storia. Per essere aiutati a penetrare tutte le profondità di queste parole, un buon commento esegetico può essere utile. Heinrich Schlier (1900-1978) ha dedicato buona parte del suo lavoro proprio al commento delle lettere di san Paolo, lasciandoci dei veri e propri monumenti, come il commento alle epistole ai Romani e agli Efesini. Ma qui vorrei segnalare un testo più sintetico, nel quale Schlier ha condensato il lavoro di una vita: Linee fondamentali di una teologia paolina (Queriniana). Non si tratta di un libro
semplice. Nonostante la mole sia piuttosto ridotta, la densità del pensiero obbliga a una lettura lenta, attenta e ripetuta. Ma una volta superato il primo impatto e presa familiarità con lo stile, ci si trova condotti per mano non tanto nel “pensiero” di san Paolo, quasi che egli fosse uno dei tanti filosofi dell’antichità, ma nella sua esperienza vitale di cristiano, che poi è anche la nostra. Schlier ha la capacità di far vedere la pregnanza ontologica, di fatto che succede, che sta sotto ogni singola parola. Questa profondità è dovuta al metodo stesso del suo procedere. Schlier, infatti, parte da un presupposto decisivo: per capire una qualsiasi cosa bisogna partecipare della sua natura. La natura del cristianesimo è di essere avvenimento. Per cui il metodo per entrare in rapporto col cristianesimo è partecipare all’avvenimento, come più volte don Giussani ha ricordato citando proprio questo volume. Leale a tale metodo Schlier, di formazione protestante, nel 1953 ha aderito alla Chiesa cattolica, il luogo cioè dove l’avvenimento vissuto e descritto da san Paolo è contemporaneo all’uomo di ogni tempo e da lui partecipabile. Una partecipazione che le pagine di questo libro aiutano a essere sempre più consapevole.
Chiesa - Nei luoghi dell'Apostolo Quelle vite consacrate a custodire una Presenza Riccardo Piol
Tarso, Antiochia, Damasco. Negli storici luoghi paolini i cristiani, ormai, sono rimasti in pochi. Eppure la loro missione in quelle terre è fondamentale. Ecco perché
Quella che un tempo era Antiochia di Pisidia oggi si chiama Yalvac, Efeso è diventata Selcuk, Mileto è Balat. I nomi delle località dell’Anatolia che conobbero il cristianesimo attraverso i viaggi di san Paolo o vennero raggiunti dalle sue lettere sono perlopiù cambiati. Come è cambiata, nei secoli, la mappa della presenza delle comunità cristiane sparse tra la Turchia e il Medio Oriente. Duemila anni dopo, gli eredi degli Efesini, dei Galati, dei Colossesi sono tornati a essere una piccola minoranza, spesso sconosciuta. Un appartamento di tre locali in un palazzina come tante altre. Di fronte una chiesa, un tempo usata come magazzino e oggi trasformata in museo per richiamare il turismo religioso. Mariagrazia Zambon descrive così, nel suo libro La Turchia è vicina (Ancora), la casa di tre suore italiane dell’Istituto religioso Figlie della Chiesa. Sono l’unica presenza cristiana dichiarata in una cittadina dove la popolazione è interamente musulmana. La chiesa-museo è dedicata a san Paolo. La città è Tarso. Là dove nacque l’Apostolo delle genti, la presenza cristiana è oggi ridotta al lumicino. In una città di poco più di 200mila abitanti, dove sono ormai esigue anche le testimonianze archeologiche dell’epoca di Paolo, la vita delle tre suore, arrivate nel 1994, gravita tutto attorno a un compito: custodiscono l’Eucaristia come segno della presenza della Chiesa. Senza poter fare apostolato - in Turchia è vietato come proselitismo -, si limitano ai rapporti quotidiani con il vicinato e a quelli con la piccola comunità di Mersin, lontana 30 chilometri. Due volte l’anno, però, la chiesa della città si ripopola: il 25 gennaio, giorno della conversione dell’Apostolo, e il 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, i fedeli che vivono nel sud della Turchia, ad Adana, Iskenderun o Mersin, si ritrovano a Tarso per pregare per l’unità della Chiesa. Cattolici di riti diversi: latino, armeno, siro, greco, ma anche cristiani ortodossi e protestanti. Li tiene legati una fede che supera anche le diversità di tradizione e il contatto spesso labile con sacerdoti e religiosi che vivono sparsi per la regione. Sulla via di Damasco La via Recta, la strada lungo cui iniziò la conversione di San Paolo, esiste ancora. Come esiste la casa dove «l’ebreo di Tarso di Cilicia» si rifugiò dopo la caduta da cavallo. A Damasco i luoghi che videro il passaggio dell’Apostolo delle genti hanno resistito al tempo. Come anche la presenza dei cristiani. Può sembrare un paradosso che la capitale della Siria, Stato “canaglia” e spauracchio della politica internazionale, sia una delle città del Medio Oriente dove oggi gli eredi di san Paolo possono vivere con maggiore libertà. Eppure è così. Anzi, è la meta sperata anche per tanti cristiani iracheni in fuga dal loro Paese. Perché a Damasco le chiese delle undici confessioni cristiane presenti in città sono visibili e per nulla nascoste, processioni e celebrazioni religiose si fanno in pubblico con il beneplacito delle autorità civili. Non è un paradiso: c’è povertà e disoccupazione, lo stato controlla tutto e tutti. Ma i cristiani, all’incirca il 15% della popolazione, condividono con tutti questa situazione. Le limitazioni poste dalla legge islamica esistono, ma la Siria offre ancora condizioni di vita molto diverse da quelle che si possono trovare in una zona dove il cristianesimo è sempre più minoranza marginalizzata. Nel quartiere popolare a sud della città vecchia, dove si trovano le testimonianze della conversione di san Paolo, i cristiani, per esempio, sono in maggioranza. Melchiti, caldei, latini vivono assieme un’esperienza di ecumenismo reale dettata dalle vicende della vita. Perché capita che famiglie ortodosse mandino i figli alle scuole del patriarcato, o che in alcune chiese, un po’ per necessità un po’ per amicizia, sia normale vedere a messa fedeli di altro rito. È la città dove iniziò la predicazione ai pagani, che ospitò Pietro prima che partisse per Roma a da dove Paolo si mosse per i suoi primi viaggi. Lì «per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani», per la prima volta la Chiesa fu detta «cattolica». Antiochia, l’antica “Regina d’Oriente”, la terza capitale dell’Impero romano, vanta una lunga serie di primati storici. Ma oggi è una città alla periferia del mondo, posta sul confine tra Turchia e Siria, con poco più di 150mila abitanti. La porta della missione In forza della sua storia ospita ancora le sedi di tre patriarcati cattolici e di due ortodossi, ma i patriarchi non risiedono in città. Eppure, la comunità cristiana è viva e attiva. Ad Antiochia, oggi Antakya, vivono poco più di un migliaio di fedeli. La maggioranza sono greco-ortodossi di lingua araba, alcuni protestanti, e una sessantina di cattolici, soprattutto famiglie. Tra ortodossi e cattolici esiste un legame ormai stabile, fatto di gesti di carità e di momenti di preghiera insieme, che è cresciuto attorno alla casa dei cappuccini. Presenti nella città dal 1846 e vera custodia della chiesa in Turchia, i frati vengono dall’Italia. Il centro della loro presenza è nel cuore di Antiochia vecchia, là dove ai tempi degli apostoli sorgeva il quartiere ebraico. Un piccolo convento, un’ampia stanza adibita a chiesa - una sorta di domus ecclesiae - e due saloni per ospitare le famiglie della comunità. La loro vita quotidiana è fatta di cose semplici: l’attenzione ai fedeli, l’accoglienza ai pellegrini, le opere di carità. Un lavoro nascosto, ai più sconosciuto, come quello dei religiosi e sacerdoti cui è stato affidato il popolo cristiano nella terra di san Paolo e che stanno spendendo la loro vita a testimonianza della fede. Scovando oggi le notizie che li riguardano, vengono in mente le parole scritte da Paolo ai Filippesi duemila anni fa: «Vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del Vangelo».
José Miguel Garcìa Ma le sue Lettere nascono dal Vangelo
Dal rapporto con il Gesù storico al richiamo ai sinottici (sottolineato anche dal Papa), ecco perché ha torto chi sostiene che Paolo ha “inventato” il cristianesimo
«Tutto ciò che san Paolo ha scritto nasce da un rapporto stretto con la tradizione evangelica, cioè con Gesù». José Miguel García, biblista della Facoltà teologica San Dámaso di Madrid, risponde così a quanti sostengono che Paolo abbia “inventato” il cristianesimo, trasformandolo coi suoi viaggi in una religione universale. A partire dal XIX secolo, infatti, molti ricercatori hanno contrapposto le figure di Paolo e di Gesù: il primo, appartenente al mondo ellenistico, incorporerebbe un’immagine di Gesù diversa da quella storica, trasformandolo in un essere divino. Per questa corrente, quindi, sarebbe Paolo il vero creatore del cristianesimo.
Nel suo nuovo libro (Il protagonista della storia, Bur, pp. 464 - € 11) attacca questa tesi… Tento di dare una risposta alla domanda «Chi fu Gesù di Nazaret?», documentando la sua pretesa terrena come uomo. Le affermazioni di fede contenute nella predicazione apostolica corrispondono alle pretese del Gesù storico nei Vangeli. In una recente catechesi il Papa ha affrontato la questione su «che cosa san Paolo ha saputo del Gesù terreno», evidenziando la continuità tra i sinottici e le Lettere paoline. Ha affermato, per esempio: «Le parole della prima Lettera ai Tessalonicesi, secondo cui “come un ladro di notte così verrà il giorno del Signore” (5,2), non si spiegherebbero con un rimando alle profezie veterotestamentarie, poiché il paragone del ladro notturno si trova solo nel Vangelo di Matteo e di Luca». Che valore ha questa sottolineatura? È importante, perché c’è chi continua a sostenere che Paolo non abbia alcun interesse per il Gesù storico. Me l’ha detto recentemente perfino un professore qui, a Gerusalemme: secondo lui, Paolo non avrebbe nessun interesse nel Gesù terreno, conterebbe solo questo Cristo esaltato, che sarebbe una creazione sua e della comunità. Paolo poteva già avere in mano un Vangelo o come si spiegano queste allusioni alla tradizione attestata nei sinottici? Oggi gli studiosi ritengono che la tradizione evangelica abbia cominciato a fissarsi per scritto negli anni 40-50, cioè un po’ prima delle Lettere di Paolo (che iniziano nel 50); dunque Paolo può aver letto qualcosa e averlo utilizzato. Lo sostengono, del resto, non pochi studiosi. Secondo me - ma siamo ancora in pochissimi a pensarla così - un Vangelo (quello di Marco) è stato scritto addirittura prima del 40. Quindi Paolo non può avere “inventato” nulla. È evidente. Tutto ciò che scrive di Gesù era già riconosciuto e affermato nelle comunità della Palestina. Per esempio, nei discorsi di Pietro riportati negli Atti (scritti in Palestina, in aramaico) si incontrano tutte le caratteristiche di Gesù presenti nelle Lettere di Paolo: la divinità, la preesistenza… Se avesse predicato qualcos’altro, si sarebbe subito troncato il rapporto con Pietro e gli altri apostoli. Paolo e Pietro erano dentro un’unica fede.
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