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[C’è un uomo di spalle, in piedi. Indossa l’impermeabile e il cappello. Ha
appena spento la luce della sua stanza d’ufficio. Con la mano destra reg-
ge una borsa marrone di pelle, voluminosa; la sinistra è appoggiata alla
maniglia interna della porta che sta per aprire. (Uscito, la richiuderà
dietro di sé, si avvierà verso l’ascensore, saluterà il portiere nell’atrio
con un «buonasera» impercettibile, percorrerà, sulla destra, un marcia-
piedi poco affollato per circa seicento metri, scenderà i gradini della
fermata della metro, cercherà inutilmente un posto a sedere nel vagone
sul quale farà sfilare sette fermate, uscirà mentre comincia a piovere,
comprerà una bottiglia di spumante italiano di medio livello e rincase-
rà). Nell’attimo di girare la maniglia l’uomo ha un movimento involon-
tario: striscia leggermente in avanti il piede sinistro facendo perno sul
destro, mentre gira il viso verso destra, poi indietro, e getta un rapido
lunghissimo sguardo semicircolare alla stanza che sta lasciando, alla
scrivania, ai quadri alle pareti, al tappeto, al lume da tavolo, alle cornici
delle fotografie di sua moglie e dei suoi figli. È quasi buio; quello che ve-
de lo riconosce utilizzando un riflesso di memoria del luogo e dei suoi
oggetti, che restano nella penombra, indistinti e presenti.]

Le righe che seguono sono esattamente quel gesto involontario e quello
sguardo, che tradisce l’ansia di un’ultima impossibile verifica e, insieme, la
difficoltà di staccarsi da un luogo a lungo frequentato, che non si avrà occa-
sione o motivo di frequentare per un tempo indefinito.

Siamo qui per dividerci / un’eredità di stenti. / Non spezziamo quello che è intero, / diventa zero. | Leonardo Sinisgalli1.Ma novo e quasi / divin consiglio ritrovàr gli eccelsi / spirti del secol mio: che, non potendo / felice in terra far persona alcuna, / l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felicitade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e felice. | Giacomo Leopardi2Senza un qualcosa su cui / poggiare non si può costruire; / in altri tempi sui co- mandamenti / oggi sul popolo, sempre / le verità corali son verità / solari che fan- no un fracasso / infernale, sono un calvario / di slanci commessi a chi viene / do- po, per un cominciamento / nuovo. | Nelo Risi3Ei d’alta, di profetica / morte per noi moriro; / con l’ultimo sospiro / vòlto a’ futuri dì. / Ei sien subietto fervido / di splendide canzoni, / fin che nel mondo suoni / la lingua alma del sì. | Alessandro Poerio4O delle glorie nostre ultime, eletta / reliquia! O insuperata itala Lingua! / Tu pur cadrai, che non può star co’ fiacchi / il tuo libero spirto, e nell’occaso / d’ogni no- stro splendor non puoi tant’ombra / vincer tu sola! | Terenzio Mamiani5.e ogni giorno ci prende il gusto più forte / di ridere alle solite cose / che dicono sulla patria e su dio / per convincerci a morire come siamo nati. | Luigi Di Ru- scio6Ma non fia mai che Italia si rilevi / finché le sorti sue fida nei pochi / ed ignavi Si- gnori. Il pronto omaggio / e la spada han deposta a piè del forte / che la Patria con l’armi avea sommersa, / e a lor diè gli avi; e le superbe case / e i larghi fondi fur delle tradite / cittadi allo straniero il guiderdone. / […] Non han sul labbro il cor quando con noi / vanto di liberal sensi si danno, / con noi senz’avi, e nati dagli oppressi. / […] Italia mai non leverà l’infermo / fianco da terra senza il podero- so / braccio della sua plebe. | Giovita Scalvini7Forse un giorno. / poter dire / non che lavorare è gioia / ma che il lavoro non co- sta / più del piacere complessivo del giorno. | Giancarlo Majorino8 Il viaggio di oltre due secoli compiuto attraverso l’antologia mi ha dato cen- tinaia di flash, o racconti ‘ellittici’, su fatti storici, ma anche su quei tratti, sempre storici, ovviamente, ma per così dire ‘lunghi’, intergenerazionali e in buona misura interclassisti, attraverso i quali si è andato definendo (nei se- coli) un ‘carattere‘ italiano, e la sua rappresentazione nella commedia del- l’arte, nella cultura popolare, nella letteratura (basta un brano di Giusti, o di Belli, o di Fusinato, ma anche di Stecchetti, Zena, De Amicis, Palazzeschi, Malaparte, o Arcangeli, Guerrini, Balestra, ecc., per raccoglierne esempi eloquenti). Quel ‘carattere’ (che arriva fino al personaggio cinematografico di Alberto Sordi, per intenderci) non è il mio, anzi posso affermare che lo dete- sto. Ma mi fa molto ridere, insomma lo capisco in ogni sfumatura, mi appar- tiene culturalmente. E se qualcuno, non italiano, mostra di detestarlo, io an- cora cado in una reazione profondamente radicata nel mio ‘subconscio cultu- rale’: mi offendo e mi viene da ritorcere. Le identità si radicano anche per di- stinzione e per assimilazione di elementi culturali negativi: è bene saperlo, è onesto riconoscerlo, è auspicabile ragionarci sopra e non adagiarvisi.
Il nazionalismo è una bestia molto pericolosa. Ma non è di un solo tipo, e non tutto sbocca inevitabilmente in totalitarismi e regni della morte. Se nel tempo in una comunità si sedimenta un sentimento di comune appartenenza che di- venta largamente condiviso, ma che è impedito da poteri sentiti dalla comunità come esterni, estranei ed ostili, il nazionalismo può essere la base di crescita di una entità – geografica, economica, culturale, istituzionale – autonoma, con ri- levanza e sovranità statuale, che protegge e rappresenta la nuova comunità- nazione, senza alcuna intrinseca e inevitabile deriva sciovinista, espansionista o revanscista. Semplicemente, un nuovo soggetto nasce alla vita storica e si pre- sume che si trasformerà e morirà all’interno di quella dimensione storico- temporale. Nel caso dell’Italia, una delle ultime nazioni dell’Europa occiden- tale e centrale – insieme alla Germania – divenute Stati sovrani, il Risorgi- mento rappresentò proprio questo: da un lato la liberazione – dal dominio diretto e indiretto, o dalla stretta tutela dell’Impero austriaco – di un terri- torio da secoli unito dalla lingua, dalla cultura, dalla religione, e diviso dalla storia e dalla storia del potere; dall’altro il raggiungimento di una dimensio- ne – innanzitutto territoriale, demografica, economica – tale da inserire l’Italia nel consesso dei maggiori e più consolidati Stati europei. Tutti noi, quindi, abbiamo un grande debito di riconoscenza nei confronti dei ‘padri fondatori’ e di tutti i combattenti e i sostenitori dell’unità nazionale. Se non altro, perché sono stati loro, senza alcun dubbio, che hanno messo noi nel e condizioni, storicamente privilegiate, di giocare in ‘serie A’, senza neppure do- ver rispondere delle piccole e grandi iniquità che il raggiungimento di un tale traguardo ha inevitabilmente comportato. Analogo debito abbiamo successi- vamente contratto nei confronti dei protagonisti di quei pochi anni – tra l’estate del 1943 e il primo gennaio del 1948 – nei quali si è passati, dalla disfat- ta e dalla concreta minaccia di frantumazione dell’unità territoriale e istituzio- nale dell’Italia, alla guerra di Liberazione, al Cln, al referendum monarchia/ re- pubblica, all’elaborazione e al varo della nuova, attuale Costituzione.
Il nazionalismo, invece, che sottenda una rivendicazione di superiorità e che le- gittimi, quindi, un’aspirazione alla supremazia, è semplicemente un nazionali- smo razzista e/o imperialista. Meglio sarebbe definirlo direttamente per quel che è: razzismo (culturale, etnico, religioso) e/o imperialismo.
Queste elementari distinzioni mi spingono anche a dire che si spera, su questo tema, di poter leggere qualcosa di più utile delle generalizzazioni vuote di studi come il recente, e molto ‘promosso’, Sublime madre nostra: la nazione italiana dal Risorgimento al fascismo9. Si tratta di un saggio letteral- mente impossibile da contestare (o da asseverare) sul piano storico, per il semplice motivo che il suo contenuto fa completa astrazione da detto pia- no, per assumere quello della semiologia e dell’analisi linguistica: un cielo nero dove tutte le vacche sono nere. Ne riassumo gli assunti fondamentali: a) i patrioti che volevano che l’Italia si trasformasse da mitologia letteraria o da ‘espressione geografica’ in una nazione indipendente e sovrana, erano (udite!) nazionalisti. E che altro avrebbero dovuto essere? b) quei patrioti erano nazionalisti sostanzialmente come lo saranno poi i na- zionalisti dell’Italietta neocoloniale crispina e come lo saranno i nazionalisti corradiniani, pascoliani e dannunziani e come lo saranno, infine, i nazionali- sti fascisti (come si accorcerebbe la storia, se si adottasse un simile meto- do: basterebbe dire che siamo tutti figli di dio); c) la ‘narrazione’ degli ‘speaker’ (sic!) nazionalisti risorgimentali, si basava: 1) sulla discendenza; 2) sulla sacralizzazione para-religiosa della Patria; 3) sulle differenze e disparità di condizione dei ‘generi’ (oltre a tutto maschio e femmina e basta, questi trogloditi!).
Cosa possono insegnarci, sostiene l’autore (ammesso e assolutamente non concesso che lo studio di un periodo storico serva a trarre insegnamenti di- retti dal suo repertorio ‘propagandistico’), dei ‘padri fondatori’ nazionalisti, familisti, apologeti e mistici dello Stato-nazione e perfino sessisti? Sui primi addebiti, sempre da un punto di vista storico, verrebbe da evocare la sco- perta dell’acqua calda, e verrebbe da consigliare qualche buona lettura comparativa sullo stato degli atti del dibattito europeo in corso in quei de- cenni sugli stessi temi, per capire che non c’era gran ché di diverso nella pubblicistica politica di quei paesi. Ma Banti questo l’ha già fatto, pubblican- Quanto all’ultimo addebito, il sessismo, bisogna riconoscere che riesce a sorprendere. Non si sa come replicare. Poi, per fortuna, ci si ricorda di qualche trafiletto del lunedì di Francesco Alberoni, dove si spiega come nei movimenti ‘allo stato nascente’ si possano trovare più facilmente esempi di mutamento profondo dei ruoli interpersonali codificati dalla morale sociale corrente (scoperta stupefacente, peraltro). E vengono in mente, che so, donna Eleonora de Fonseca Pimentel; le donne del popolo che dai tetti di Brescia lanciavano coppi e suppellettili sui soldati austriaci; l’originale e complesso ‘sodalizio’ tra Anita e Giuseppe Garibaldi; il ruolo politico-diplo- matico della contessa di Castiglione; il salotto di Clarina Maffei; Costanza Arconati e i suoi rapporti con la prima generazione dei patrioti ‘esuli’; le carriere soliste delle poetesse improvvisatrici nei teatri d’Italia, come la Giannina Milli; le idee fourieriste diffuse all’interno delle sette, prima filona- poleoniche, poi carbonare, eccetera eccetera. Insomma: ma quale sarebbe il nesso specifico, stringente, tra Risorgimento e sessismo? Volendo riassume- re in una formula la caratteristica più evidente di questo studio, si do- vrebbe dire che esso, in primo luogo, manca di ‘senso storico’. Un’inezia, per un saggio storico di uno storico, pubblicato in una prestigiosa collana che s’intitola ‘Storia e Società’.
La classe dirigente della nazione italiana si è costituita su una base elettorale ristretta e censuaria. La destra liberale considerava la delega a governare un atto sostanzialmente dovuto e naturale, ma aveva, in compenso, uno spirito di servizio che ne autolimitava la deriva corporativo-affaristica insita nelle condizioni descritte. Quando al Parlamento e al governo arrivarono – la ba- se elettorale restando ancora per molto tempo assai limitata – nuovi ceti borghesi e professionali, tra i quali esponenti della dirigenza statale, magi- strati, avvocati e medici, molti dei quali di origine meridionale, legati ai set- tori della rendita fondiaria e urbana e della speculazione finanziaria, e in qualche caso anche a interessi affaristico-criminali, nacque una caratteristica peculiare, almeno per l’entità del fenomeno, della democrazia rappresenta- tiva italiana: il ‘trasformismo’, categoria che poco ha a che fare con la sfera etico-politica, e molto con quella della formazione del consenso e del suo mantenimento in una situazione politico-parlamentare autoreferenziale, corporativa, fonte di potere, status e ricchezza.
La storia del trasformismo meriterebbe una ricostruzione ben più appro- fondita di quanto sia stato possibile fare, in particolare in rapporto ai gravi limiti che hanno caratterizzato fin dal suo nascere il nuovo Stato unitario nei confronti del grande tema dell’integrazione dell’ex Regno delle due Sicilie al resto del paese. Subito dopo il crollo della monarchia borbonica, la classe diri- gente meridionale fu costretta a giocare di rimessa; ignorata, non interpellata, lasciata ai margini politici, ma anche amministrativi e burocratici, non ebbe al- tra opportunità che quella di porsi tra i nuovi istituti statali ‘piemontesizzati’ e gli interessi dei ‘poteri forti’ locali – latifondisti e mafie, in primo luogo – in parte per mediarne l’incomunicabilità reciproca, in parte per aprirsi una pro- spettiva di inserimento nelle nuove strutture di comando e di gestione del nuovo Stato, al Sud, ma non solo al Sud. Quindi l’approccio gretto, arrogan- te e riduttivo della monarchia sabauda e della classe dirigente liberale modera- ta (orfana di Cavour), nei confronti di uno Stato importante, di rango europeo e di raffinata cultura, fu causa non solo dell’incancrenirsi dei problemi econo- mici e sociali del Sud, dei quali, in un secolo e mezzo di storia unitaria non si è riusciti a venire a capo; ma fornì anche una ‘giustificazione’ e un potente incen- tivo al perverso intreccio instauratosi con il tempo tra la classe dirigente meri- dionale e la criminalità organizzata.
Il populismo semi-autoritario e la divaricazione quasi assoluta tra propagan- da e atti; la capziosa raffinatezza e impenetrabilità del linguaggio della politi- ca; il paternalismo che rende i governanti dei ‘capi’, e i cittadini dei ‘sudditi’; questa linea populistico-plebiscitaria, da democrazia delle élites burocrati- che, cioè arretrata e vocata a tenere sotto tutela i governati, è un tratto ri- corrente, variamente declinato nelle diverse congiunture storiche, ma perico- losamente inscritto in quel ‘carattere italiano’ cui si è accennato, che precede di secoli la breve vita della nazione. La sua sopravvivenza in epoca moderna è del tutto evidente; essa ha interessato in particolare i governi di Depretis e di Crispi, di Giolitti e di Mussolini, di Craxi e di Berlusconi. Con Crispi, Craxi e Berlusconi in modo implicito – e con Mussolini in modo esplicito e struttura- to in regime – al modello populistico trasformista si è affiancata, anche, la deri- va leaderistico-autoritaria, la semplificazione cesarista dei nodi e delle crisi po- litico-istituzionali da troppo tempo tenute aperte o comunque irrisolte.
Non manca certo lo ‘statalismo’ nella storia dell’Italia unita. Dalle infrastrut- ture alla scuola, dalle assicurazioni al sistema bancario sia l’Italia monarchica liberale, sia – molto di più – quella monarchica fascista, sia, infine, l’Italia re- pubblicana, hanno convissuto con uno Stato di volta in volta intrusivo, au- toritario, assistenziale, protettivo, corporativo, ecc. È mancato del tutto, però, nella storia dell’Italia unita (tranne che, in una certa misura, per i pri- mi decenni della sua vita e per il primo decennio successivo alla seconda guerra mondiale), un processo condiviso e regolato di formazione delle classi dirigenti; di riforma e adeguamento costante delle istituzioni e delle amministrazioni; di ‘spirito di servizio’ nell’esercizio delle prerogative e delle deleghe che afferiscono ai diversi e distinti poteri dello Stato. Questo ha reso cronica strutturale e permanente la politica degli annunci e la sua distanza dalla realtà. E ha favorito, complementarmente, il mantenimento di una minorità – interiorizzata, o comunque subita – da parte dei governati.
Finché, nell’Italia repubblicana, c’erano i partiti di massa e ‘pesanti’, le me- diazioni politiche potevano dirsi in qualche modo rappresentative e poteva- no – in parte e malamente, alla lunga – ovviare alla fragilità della gestione della sfera pubblica. Cosa accadrà domani, al termine della drammatica commedia dell’arte del berlusconismo, in assenza di qualsiasi credibile pre- supposto, soggettivo e oggettivo, di autoriforma della politica, e con uno Stato (e suoi ingombranti dintorni) assediato e presidiato, a tutti i suoi livel- li, da torme di ‘occupanti’ infeudati e protetti? Ancora una domanda: che cosa ha rappresentato l’Italia unita per le classi subalterne? Su un ipotetico bilancio, al passivo si possono mettere: – i soldati da mandare a morire per la Patria, innanzi tutto. Anche se non si trattava di una novità assoluta; di nuovo c’era la Patria, ma radunare coscritti tra i diseredati delle campagne e dei suburbi era antica e consolidata abitudine.
L’Italia monarchica, tra il 1861 e il 1946, ha conosciuto almeno otto guerre, una ogni dieci anni; la terza guerra d’indipendenza; la prima avventura coloniale e il massacro di Dogali; la seconda (quella crispina) e la sconfitta di Adua; la guerra italo-turca di Giolitti per la Libia e il Dodecanneso; la prima guerra mondiale; le tre guerre mussoliniane – la campagna d’Eritrea, la guerra di Spagna e la seconda guerra mondiale. Milioni di morti, campi lasciati deserti e miseria; – gli emigranti, decine di milioni di emigranti, traditi dalla Patria e costretti a cercarsene una nuova o a morire. Dagli anni settanta dell’Ottocento, per circa cento anni: paghe di fame; migliaia e migliaia di morti per la durezza delle con- dizioni di lavoro; famiglie distrutte; territori abbandonati a se stessi. Per chi ce l’ha fatta, una nuova cittadinanza e l’Italia nel cuore. Incredibilmente, a prima vista. Ma le radici, gli affetti, i luoghi non si lasciano e non ci lasciano facilmente; – le vittime dell’ordine pubblico, che veniva dichiarato violato e minacciato appena si verificava una protesta, una lotta organizzata, un’occupazione simbolica di terra di latifondo, uno sciopero di cantiere o di officina, un ra- duno, un corteo. La riduzione della questione sociale ad ordine pubblico è durata per molti decenni, con brevi intervalli e sporadiche ‘aperture’ e tregue.
Anche le poste di bilancio ‘all’attivo’, la crescita del ruolo e della condizione del ‘quarto stato’, sono state, per la verità, drammatiche, ma certo ricche di risultati e per tanti aspetti esaltanti. La storia del movimento operaio in Ita- lia è stata prima anarchica, socialista, sindacalista rivoluzionaria e cattolica; quindi socialista riformista e operaista rivoluzionaria (ordinovista); poi fasci- sta (quella comunista non avendo fatto in tempo a radicarsi) corporativa e chiamata ad identificarsi organicamente con il blocco popolare di consenso al regime. Infine, con la nuova partenza del dopoguerra e dell’Italia repub- blicana, essa è stata una lunga marcia attraverso la ricostruzione, la difesa dell’occupazione, il concorso all’industrializzazione accelerata del paese, la conquista di uno status sociale, civile e politico pienamente democratico. I grandi partiti di massa e popolari ne hanno assunto, secondo linee del tutto distinte e non di rado contrapposte, la rappresentanza, e ne hanno favorito la promozione economica e sociale. Il movimento sindacale, nelle sue sta- gioni unitarie – interrotte da lunghe parentesi di divisione – ha a sua volta spinto in avanti le condizioni contrattuali e ‘di potere’ dei lavoratori dei di- versi settori e di tutto il paese, proponendosi sempre più, nel tempo, come soggetto di interlocuzione politica e soprattutto istituzionale.
Oggi di quella storia restano le memorie e le conseguenze. Il rapporto tra storia delle classi subalterne e Italia, in particolare, non può più essere de- scritto secondo le precedenti coordinate, sociologiche, economiche, cultu- rali e perfino terminologiche. La classe operaia, tutt’altro che ‘scomparsa’, ovviamente, si è però confusa e stemperata in un mondo del lavoro frasta- gliatissimo, pieno di figure intermedie tra il ruolo salariato, quello subordi- nato, quello autonomo e quello imprenditoriale. Parimenti il tessuto pro- duttivo si è distribuito su una gamma innumerevole di funzioni, la cui prin- cipale caratteristica è stata la natura terziaria, di servizio. La terziarizzazio- ne, beninteso, non riguarda il solo settore terziario, ma l’intero tessuto economico produttivo. Tutto questo ha portato al progressivo spostamen- to del terreno del confronto e del conflitto sociale sul piano distributivo e dei redditi, da un lato, e su quello dell’esclusione e dell’inclusione dall’altro.
Con la nuova frontiera tecnologica della rivoluzione informatica e della glo- balizzazione tale spostamento si è ulteriormente esteso e complicato, arri- vando ad interessare anche il mondo simbolico, ma realissimo, delle comu- nità virtuali, della comunicazione, dell’informazione e dell’intrattenimento.
Ma insomma, per quanti specchietti siano stati disseminati, non è poi così difficile capire chi è fuori e chi è dentro questa nuova società di consumato- ri. Fuori ci sono sicuramente i clandestini, gli immigrati con permesso di soggiorno, tutti quelli che lavorano in nero o sottopagati; i giovani (e meno giovani) precari senza prospettiva e senza alcun welfare dedicato; i pensio- nati poveri e le famiglie anziane monoreddito; segmenti di lavoro qualificato (ricercatori, operatori e mediatori culturali, artisti) esclusi dalla nuova so- cietà dell’informazione (apparentemente) autosufficiente e interattiva. Tutte figure sociali che vengono divise e talvolta contrapposte, e che soffrono di un gravissimo deficit di rappresentanza, a tutti i livelli.
Mi sento di dire, da tanti segni che noi tutti scorgiamo, che sta avendo ini- zio una nuova fase storica, che avrà sedi, attori, oggetti, contraddizioni ed esiti in una certa misura inediti. Non solo per l’Italia, naturalmente. Le compatibilità attuali sono logore e dovranno mutare. Il capitalismo finanzia- rio sta evidenziando alcune sue pochissimo sostenibili implicazioni. Tutto è in discussione e dovrà cercare nuove risposte, e costerà nuovi lutti, e ali- menterà nuove energie. Sarà comunque una ‘catastrofe’ e mi auguro che lo sia esclusivamente in senso ‘topologico’, secondo l’omonima ‘teoria delle catastrofi’ di René Thom: mutamento di stato, collasso non direttamente deducibile dalla configurazione e dalle dinamiche dei fattori pregressi e noti.
Per mio conto e per quanto vale, spero che la cultura umanistica classica e moderna di qualsiasi ascendenza (quella nella quale mi sono formato, e l’unica che io conosca, ahimè) possa continuare ad avere un ruolo. In ogni caso l’imminente inizio di una storia che poco avrà a che vedere con quella che abbiamo vissuto a me sembra un’ottima giustificazione finale di questo lavoro, che vuole soltanto ricordarci come ci siamo arrivati, fino a qui, nel Cercare la modernità nell'arte è cercare la modernità, non l’arte; e, poiché il mo- derno e il nuovo non è dato ottenerli di proposito se non come cose pratiche e con procedimenti meccanici e industriali, la letteratura modernizzante è emi- nentemente letteratura industriale, o, in ogni caso, meccanica. | Benedetto Croce11Personalmente mi è accaduto, in questi tempi di eclettismo ideologico da un lato, e di curiosità inquietante per i mass-media dall’altro, di pensare con una certa no- stalgia a Croce, pur avendo occupato un quarto di secolo e più a dissentire dalla sua estetica in particolare. Alcune cose me lo fanno ricordare, oggi, con un senso di gratitudine […]. Innanzi tutto, la dignità e fedeltà tenacissime con cui ha rap- presentato, da noi, e non solo da noi, la grande corrente di pensiero moderno cui si deve la scoperta del problema dell’autonomia dell’arte: l’estetica idealistica e romantica, che comincia con la «Critica del giudizio» di Kant. In secondo luogo, e di conseguenza, la sua difesa ad oltranza della forma artistica […] resta un esempio moralmente confortante di fede nell’arte, e di gusto: oggi che l’idea di forma sembra totalmente perduta: […] nella critica e nella riflessione estetica, con la pratica di un estetismo eclettico, rècipe una buona dose di linguistica strutturalistica più o meno compresa, e di connessa retorica, e un pizzico finale di misticismo estetico. Benedetto, dunque, don Benedetto. | Galvano Della Volpe12Nella lirica moderna possono distinguersi due filoni principali. L’uno, cosiddetto sperimentalistico, che, a dire il vero (data anche l’età del sottoscritto), mi per- suade solo fino ad un certo punto. Per quanto ingegnoso esso possa apparire, e per quanto occorra talvolta tener conto delle sottese intenzioni di genere politico- satirico, mi sembra, più che altro, di ‘maniera’ e di ‘giochi’. L’altro è quello della poesia d’ogni tempo, dai primi lirici greci fino a Leopardi, nei suoi poli fondamen- tali di amore-morte. | Sergio Solmi13I poeti da corteo / non passeranno alla storia: / non volevano s’imparasse / la poesia a memoria. | Luciano Erba14 Non amo la poesia civile, intesa come ‘genere’. In questa frase ci sono due concetti. Potrei (forse dovrei) dire meglio e più semplicemente: non amo la poesia ‘di genere’. Ma, a meno di chiarire meglio questo termine, non posso davvero dire che sia così. Ad esempio, mi piace molto leggere poeti manie- risti e barocchi (come Juana Ines de la Cruz, Francisco de Quevedo, Fran- cesco de Lemene, Ciro di Pers, Giovan Battista Marino.), o arcadi come Metastasio e Jacopo Vittorelli, o tanti altri manieristi moderni e contempo- ranei di varia ascendenza. Allora? In realtà ho elencato solo grandi poeti, Il ‘genere’ diventa tale quando viene imitato e replicato. Quando, come dice Croce, l’arte si fa pratica e meccanica. Vi può essere buona letteratura, utile comunicazione, ma stiamo parlando di industria e di prodotti, non di arte. Quindi la poesia esula dai generi perché non è meccanica, non è pro- grammabile e replicabile. Questo non significa affatto che non si possa di- stinguere la poesia per ‘generi’ e perfino ‘sottogeneri’, rispetto all’oggetto (es. : ‘poesia d’amore’ e relativi sottogeneri – d’attesa, di vendetta, di gelo- sia, di corteggiamento, ecc. –; ‘poesia civile’ e relativi sottogeneri – patriot- tica, bellica, di lotta, di protesta, ecc.); e allo stile (es.: ‘lirica’, ‘drammatica’, ‘epica’, ecc., e relativi sottogeneri). Quando si ricorre a simili distinzioni si fanno operazioni che non definiscono la poesia. Non riguardano infatti la poesia, ma i criteri della sua classificazione a fini pratici, di fruizione, di stu- dio, di consultazione e così via. Si apre la via alla storia e alla critica della poesia e della letteratura in generale. ‘Storicizzare’ è una funzione decisiva: si costruisce una civiltà letteraria, consapevole della propria tradizione e re- sponsabile, alla fine, della sua continuità. Sì, perché i ‘posteri’ sono gli unici responsabili delle opere e degli autori che le generazioni successive avran- no la possibilità di leggere e criticare. La tradizione è costitutivamente la storia di canoni, gerarchie, emarginazioni, abbandoni, oblii, riproposte e ri- sarcimenti. Non è un corpus stabile e immodificabile, a cui si possa semmai, con cautela, cercare di aggiungere qualche ‘nuovo esemplare’ (questo è, nel migliore dei casi, accademismo). Però non è nemmeno un corpus con il Se si vogliono compiere rotture e se si vuole mandare per sempre in soffitta tutto ciò che definiamo ‘tradizionale’ dobbiamo temere la vendetta della ‘mummia’ che seppelliamo: nella civiltà letteraria si rischieranno inabissamenti come quelli di Atlantide, impoverimenti di lingue, asservimenti ad altre culture, decadimento secco della capacità di rappresentazione – e quindi di trasfor- mazione – della coscienza di un intero paese, di una società e dei suoi mem- bri. Il modernismo delle avanguardie produce di questi danni. Le avanguardie, invece, fanno bene all’arte. Purché nascano dalla rielaborazione e razionalizza- zione pratica, propagandistica, di artisti singoli – o di loro studiosi –, che riten- gano di poter dedurre dalla loro opera e da quella di altri poeti coevi tratti comuni di ricerca formale, e si propongano di verificare e presentare assieme i risultati che ciascuno consegue. Quindi ex post e a fini pratici.
Come spiega in due parole Croce nel testo citato sopra, «il moderno e il nuovo non è dato ottenerli di proposito». Con il che tutte le avanguardie- movimenti, che fraintendano il loro ruolo (pratico) autocostituendosi ex ante a nuovo canone, sono servite. Non per nulla; ma perché così commet- tono un utile (a loro) ma grossolano errore di ‘piano’: diventano ‘inverifica- bili’ e intasano i canali di trasmissione della civiltà letteraria, con effetti mol- to gravi e fastidiosi, per non dire insopportabili, di autoreferenzialità corpo- rativa. Se questo accade con le avanguardie, figuriamoci con le neo-avan- guardie. Basti pensare a quanto si è verificato in seguito all’aggressiva emer- sione dei ‘novissimi’ poeti usciti dall’officina letteraria anceschiana, nucleo della successiva costituzione del Gruppo ’63. Il loro movimento e la loro polemica letteraria (modernista, per l’appunto) ebbero grande successo e furono gravidi di conseguenze che in parte perdurano. La più clamorosa e oggettiva di tali conseguenze (senza voler qui entrare nel dibattito tra esti- matori e denigratori del ‘gruppo’) è stata la cancellazione – dal panorama editoriale, già così asfittico e precario; dalla memoria critica e letteraria; dalla ricostruzione della storia e dei protagonisti del Novecento italiano – di tutti quei poeti che, nell’immediato dopoguerra e fino alla prima metà degli anni sessanta, furono i protagonisti di una stagione ‘neorealista’, non solo parallela a quella di altre discipline artistiche, ma anche erede di un fi- lone – il realismo europeo degli anni trenta – coevo e alternativo a quello er- metico, e di respiro internazionale. In pochissimi sopravvissero alla cancella- zione (Pasolini, Fortini, Risi, Sereni e qualche altro) anche perché il loro profilo artistico non era interamente tracciabile all’interno della stagione ‘neorealista’; ma chi ha più sentito parlare, almeno in quanto poeti di quella stagione, di Vel- so Mucci, Mario Socrate, Francesco Monterosso (Franco Matacotta), Luigi Di Ruscio, Mario Tobino, Giovanni Arpino, Giorgio Bassani, Corrado Pavolini, Marco Visconti, Vittorio Bodini, Rocco Scotellaro, Giorgio Piovano, e via elen- Mi è sembrato di capire il tempo – i tempi – che andavo attraversando con la lettura e la selezione dei testi di questa antologia ogni volta che ho incon- trato il fascio di luce proiettato dal faro di un poeta senza aggettivi. Di più: l’oggetto specifico, l’occasione dei testi di questi poeti-poeti (attenzione, poeti-poeti non vuol dire poeti ‘puri’) non costituivano il nocciolo della lo- ro potenza espressiva e della loro potenza di luce. La loro poesia, infatti, essendo tale, era costituita essenzialmente di pensiero e di linguaggio, ele- menti condivisi con la generalità degli esseri umani. La tensione individuale di questo pensiero, la sua specificità e individualità irriducibile, la sua capaci- tà di riflettere aspetti essenziali e comuni dell’esperienza umana (al dunque: vita, opere, amore, morte): diventano, quando trovano espressione in poe- sia, forma poetica che ci illumina, fa risuonare, amplifica, fa emergere e chia- risce a noi stessi visioni e pensieri anche nostri, rimossi, rimasti dormienti, non elaborati, comunque silenti. E diventano stile, cioè la firma inimitabile di ciascun autore, che è il prodotto del ‘ritmo’ e del ‘tono’ (unici) del suo pen- siero; delle relazioni causali e casuali che ciascuno proietta sulla lingua in una successione e in un flusso altrettanto unici e inimitabili.
E tutto il resto? La letteratura, i canti e gli inni di mobilitazione, le poesie ‘di genere’, tutto ciò è orpello, inutile ingombro, maceria formale da rimuovere? Nient’affatto. Proprio in mezzo al bosco riusciamo a distinguere gli esemplari che svettano. Solo conoscendo il bosco possiamo ‘storicizzare’ il linguaggio e il pensiero della poesia. E nulla, nulla, deve impedirci di commuoverci di fronte a un testo mediocre, ma, per qualche ragione, personale o di memoria collettiva, tale da commuoverci. Anche passando per lo stomaco, o per il cuore, si può raggiungere (ed ‘alimentare’) il cervello. Siamo uomini, del resto, cioè animali che si rappresentano e, così facendo, si oppongono al loro destino, alla loro stessa ‘natura’ mortale. Lo fanno interrogandosi incessantemente sulla loro vi- ta, sugli altri, sugli amori e gli odii, le attese e i risultati, la felicità e l’infelicità, il coraggio e la paura, il bello e il brutto, il cielo e la terra, eccetera eccetera ec- cetera. Vita e linguaggio, coscienza e rappresentazione, istinto e forma: nella tensione che si instaura tra queste relazioni si esprime il poeta, matura e trova la propria ‘misura’ il suo stile. Per questo il linguaggio della poesia è, poten- zialmente, di tutti; non è, non potrà mai essere, da tutti.
Per concludere (?): amo la poesia che si fa ‘nel suo tempo’ e risuona ‘nel Tem- po’. Amo la poesia d’amore e di morte, e quella epica. Ma anche la poesia epi- ca è d’amore e di morte, e viceversa. Quello che cambia (cambia sempre, cambierà sempre) è ‘lo spettro’ del racconto e il dosaggio degli ingredienti primari, che sono l’introspezione e il giudizio sul proprio tempo. Ma di questo si discuta a posteriori, e con parsimonia. Si legga invece, e si rilegga, la poesia, perché essa possa scorrere in noi e nelle nostre vite. E la s’impari a memoria, fin da piccoli, con la necessaria fatica. Senza mai più chiedere ad un qualsiasi alunno di qualsiasi ordine e grado: «cosa vuol dire il poeta Se dovessi scrivere un libro per comunicare ciò che ho già pensato, non avrei mai il coraggio di cominciarlo. Io scrivo proprio perché non so ancora cosa pensare di un argomento che attira il mio interesse. Facendolo, il libro mi trasforma, muta ciò Vale anche per me. Nel caso dell’antologia la domanda di cui non conosce- vo la risposta era: in che senso mi sento italiano (oltre che per il fatto che lo sono)? Arrivato alla fine del viaggio, se mi costringo a dare una sola rispo- sta, la più vera e intima, la mia attuale risposta è la seguente: mi sento ita- liano per la lingua, quella che parlo, e molto di più quella che leggo e scrivo.
Amo l’italiano, il suo suono e tutto quel po’ che so usare dei suoi ‘armonici’ e dei suoi ‘ritmi’ lessicali e sintattici. Amo la sua letteratura, per l’impor- tanza preponderante che il verso ha avuto in essa.
Nasco marxista, marxiano, dellavolpiano, antistoricista. Cresco marxiano, leopardiano, canettiano (da Elias Canetti). Ero e resto avverso all’irra- zionalismo e tanto più alle sue estenuate propaggini (pensiero negativo, pensiero debole, postmodern). Non frequento, e ovviamente non giudico, la psicoanalisi. Negli ultimi dieci anni sto dubbiosamente avvicinandomi alla storia, e persino allo ‘storicismo’, e sento stridere tutte le giunture delle mie architetture ‘sovrastrutturali’, messe duramente alla prova. Ma non mi lamento, anzi. È entrata molta vita, individuale e collettiva, attraverso que- sto cavallo di Troia; molta memoria, molta esperienza e molti esempi di meccanismi di comportamento pratico, politico, insomma utilitaristico, che hanno dato un po’ di sangue al mio marxismo filosofico e al mio razionali- smo pessimistico. La strada intrapresa è proseguita con questa antologia, attraverso una serie di approfondimenti, e, con essa, ha avuto un’accele- L’esule dal proprio paese, al quale è venuta meno la gioventù e il vigore, […] si è fatto maestrucolo di lingua e gazzettiere, e compilatore d’antologie. | Giovita Questo autoritratto mesto e autoironico di un notevole e dimenticato poe- Ed oggi, e qui, come negare che io mi sia fatto ‘compilatore d’antologie’? [L’uomo ha aperto e richiuso la porta dietro di sé. Nell’ascensore ha
premuto il pulsante zero, scendendo per cinque piani in uno stato di as-
sorto torpore. Arrivato di fronte alla guardiola, un impulso lo ha porta-

to a fermarsi; chiede al portiere notizie del figlio, appena laureato. Il
portiere farfuglia: è sorpreso, ma sembra contento di parlare di suo fi-
glio. I due si salutano, con una certa cordialità. L’uomo esce sulla strada,
piega a sinistra e.]

Vanni Pierini (Scansano / Roma, ottobre 2011) 1 Leonardo Sinisgalli, da Mosche in bottiglia, Mondadori 1975.
2 Giacomo Leopardi, «Palinodia al marchese Gino Capponi» (vv. 197/205), in Canti,Starita 1835.
3 Nelo Risi, «Dentro la sostanza», in Minime massime, Scheiwiller 1962.
4 Alessandro Poerio, «Ai martiri della causa italiana» (vv. 17/24), in Poesie edite e po-stume, Le Monnier 1852.
5 Terenzio Mamiani, «La lingua italiana», (vv. 33 / 38), in Poesie, Le Monnier 1857.
6 Luigi Di Ruscio, «[La domenica la passiamo a ballare]» (vv. 20/23), in Non possiamoabituarci a morire, Schwarz 1953.
7 Giovita Scalvini, «Il fuoruscito» (vv. 12 /173), in Scritti, Le Monnier 1860.
8 Giancarlo Majorino, «Il termine della democrazia», in Lotte secondarie, Mondadori1967.
9 Alberto Mario Banti, Sublime madre nostra: la nazione italiana dal risorgimento al fasci-smo, Laterza 2011.
10 Alberto Mario Banti, L’onore della nazione: identità sessuali e violenza nel nazionalismoeuropeo dal XVIII secolo alla grande guerra, Einaudi 2005.
11 Benedetto Croce, «L’estetica nazionalistica e quella modernistica nella Germania deiprimi del novecento», in Storia dell’estetica per saggi, Laterza 1942.
12 Galvano Della Volpe, da «l’Avanti!» del 25 febbraio 1966, in Opere (vol. VI, p. 481),Editori Riuniti 1973.
13 Sergio Solmi, dalla nota di copertina di Daria Menicanti, Poesie per un passante, Mon-dadori 1978.
14 Luciano Erba, «La pena del taglione», in Nella terra di mezzo, Mondadori 200015 Duccio Trombadori, Colloqui con Foucault, Castelvecchi 1999.
16 Giovita Scalvini, Scritti, cit.

Source: http://www.altritaliani.net/IMG/pdf/congedo.pdf

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